di Paolo Montagna
Da due anni e mezzo Papa Francesco non fa altro che stupirci: ogni sua iniziativa, parola, gesto sembra sempre “altro” rispetto a quello che solo pochi anni fa ci saremmo aspettati dalla Chiesa, o almeno da quanto appariva essere l’immagine pubblica della Chiesa ufficiale, spesso – anche un po’ in modo subdolo – identificata con il Vaticano o la Curia romana.
In questo caso, apparentemente, il papa sembra percorrere una strada antica, con una modalità storicamente ben nota, l’Anno Santo, per invitare i fedeli a un percorso di profonda conversione e a una radicale esperienza di fede. Ma fin da subito il papa ci ha chiaramente fatto capire che non gli interessano adunate oceaniche, pellegrinaggi di massa, celebrazioni solenni con cui folle di fedeli possano “lucrare indulgenze”: lo scopo del Giubileo è decisamente diverso!
E’ un Giubileo della Misericordia, che si apre esattamente 50 anni dopo la conclusione di quel grande Concilio con cui la Chiesa si è aperta al mondo preferendo “usare la medicina della misericordia invece di imbracciare le armi del rigore” (Giovanni XXIII), per permettere a tutti di “contemplare il mistero della misericordia”, “fonte di gioia, di serenità e di pace”, come lo stesso Francesco ce lo presenta all’inizio della bellissima Bolla di indizione “Misericordiae Vultus”.
E per far questo servono cose semplici, non certo grandi cose. Quando, alcune settimane or sono, anche nella nostra Diocesi si è iniziato a pensare alle modalità con cui proporre l’anno giubilare, si è detto subito, anche su invito del Vescovo, che non si trattava di aggiungere iniziative speciali alle tante già previste nell’anno pastorale diocesano, ma di vivere le normali occasioni di incontro e di celebrazione con un atteggiamento, un tono, un cuore “giubilare”, cioè aperto alla misericordia, di tutti verso tutti.
Ecco quindi il mio primo pensiero: vorrei tanto che il Giubileo fosse qualcosa di estremamente semplice, fatto di momenti sobrii e snelli, senza alcun formalismo, senza fronzoli o sovrastrutture, senza canti troppo solenni, senza liturgie troppo pesanti, senza primi posti riservati alle autorità… Insomma, senza tutto quello che noi di solito riusciamo a escogitare nel tentativo di “vestire meglio” la vita della nostra Chiesa.
Il vero “vestito della festa” è far posto a Gesù e al suo Vangelo dentro al nostro cuore: Lui, così com’è, è già bellissimo, è l’esperienza più bella che possiamo vivere! E se lo portiamo dentro di noi, allora davvero vivremo il Giubileo: sapremo mettere al centro Lui, cioè andare all’essenziale, incontrare le persone, fare spazio a coloro che Lui vuole al primo posto, cioè i poveri, gli ultimi, coloro che vivono nelle “più disparate periferie esistenziali” (Francesco), facendo sì che tutti i nostri fratelli possano trovare in noi il volto di una Chiesa bella, gioiosa, accogliente, che include e non esclude, che propone e non impone, che dialoga e non predica, che abbraccia e non giudica, che avvicina e non allontana.
Se ognuno di noi – io per primo – durante quest’anno giubilare riuscirà a guardare con occhi diversi, di amore anziché di giudizio, una persona (una comunità ecclesiale, un ambiente di lavoro, una realtà sociale) che oggi gli sembra lontana o “sbagliata”, cercando di capirla e di accoglierla per quella che è, vivendoci davvero insieme, amandola da fratello perché in lei c’è Gesù, allora il Giubileo avrà raggiunto il suo scopo.
Ma un secondo pensiero si fa strada in me, strettamente connesso al primo. Pochi giorni fa Francesco si è rivolto così ai delegati del Convegno Ecclesiale di Firenze: “Mi piace una Chiesa italiana inquieta, sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti. Desidero una Chiesa lieta col volto di mamma, che comprende, accompagna, accarezza. Sognate anche voi questa Chiesa, credete in essa, innovate con libertà”.
Sono parole forti che ci toccano tutti come Chiesa. Non lasciamole scivolare via, portiamole nel cuore. Il volto lieto della mamma è ciò che nessuno di noi potrà mai dimenticare, è quanto di più bello rimane per sempre nel cuore di ciascuno di noi, come ben sa soprattutto chi purtroppo non lo ha più vicino a sé.
Se la Chiesa davvero avesse il volto della mamma, se l’avesse avuto in tante occasioni, ora non saremmo qui a rimpiangere un passato perduto, a difendere un presente difficile, a temere un futuro incerto.
Se la Chiesa avesse il volto della mamma, tutti correrebbero da lei, certi che la troverebbero sempre con un grande sorriso sulla porta ad aspettarli, contentissima di rivederli, disponibile ad aiutarli nelle difficoltà, capace di consolarli con un grande abbraccio nei momenti più tristi. O anche, più concretamente, indaffarata a preparare per loro un buon pranzo domenicale, oppure in paziente attesa del loro ritorno magari dopo un lungo viaggio, e poi subito pronta a rimettersi al lavoro per lavare la loro biancheria o riempirli di mille attenzioni, anche se loro per tanto tempo sembravano averla dimenticata. Lei no, non si dimenticherebbe mai dei suoi figli: essi sono sempre, tutti, nel suo cuore, nelle sue preghiere, nelle sue preoccupazioni quotidiane. Anche quando sbagliano o intraprendono strade “pericolose”, lei rimane lì, li aspetta, li porta nel cuore, e se sentirà che staranno per ritornare, li accoglierà a braccia aperte, con una capacità infinita di perdonare i loro errori e di ricominciare ogni volta. Per amore, e basta.
La Chiesa siamo noi: laici e religiosi, ciascuno per la sua parte, qui ed ora. La nostra Chiesa abbia il volto lieto della mamma: sia questa la preghiera, la speranza, il sogno per il nostro Giubileo.