Terra Santa. Il primo nome della pace è giustizia

Corrispondenza da una terra martoriata, dove è evidente chi è l’oppresso e chi l’oppressore

Articolo pubblicato sul sito dell’Azione Cattolica Italiana

Murales di Banksy sul muro di Betlemme che separa palestinesi da israeliani. Due angeli intravedono una piccola fessura tra le lastre che compongono il muro e tentano di aprirlo
Murales di Banksy sul muro di Betlemme che separa palestinesi da israeliani. Due angeli intravedono una piccola fessura tra le lastre che compongono il muro e tentano di aprirlo

Cara Azione cattolica, se oggi mi trovo qui, è solo grazie a te. Non ti ho mai ringraziata abbastanza per tutto ciò che mi hai donato. Quando mi è stato chiesto di raccontarti la mia vita in Palestina, non ho esitato a dire . Perché credo sia fondamentale condividere le esperienze, essere testimoni, come altri lo sono stati per me e hanno cambiato il corso della mia vita. Questo è il mio modo di ringraziarti.

Mi sento, tuttavia, investito di una grande responsabilità. Scrivere di guerra è fin troppo facile: si tende a schierarsi, a credere di conoscere tutto, di sapere chi ha ragione e chi torto. Molto più difficile è parlare di pace, e ancora più arduo è costruirla. Perché per farlo bisogna scendere a compromessi, riconoscere l’esistenza dell’altro, oltre noi stessi, e comprendere che i nostri limiti possono essere superati solo lavorando uno accanto all’altro. La pace non è semplicemente l’assenza di guerra: è uno stile di vita, un’essenza che risiede in ogni nostra azione. Deve essere un desiderio costante e non un’alternativa, l’unica strada possibile da percorrere.

Chi sono io, dunque, per parlare di tutto questo? Non saprei da dove partire per raccontarti la mia storia, perché credo di non avere nulla di mio da raccontarti. Tutto quello che ti scrivo appartiene ad altri: il dolore, la sofferenza, la speranza, il desiderio di un futuro, e un presente, migliori. Parole, voci, storie che ascolto e faccio mie, per aiutarmi a mantenere la rotta quando sbandare sarebbe molto facile; per ricordarmi ogni giorno che qualcosa di diverso non solo è possibile, ma è già qui e ora; dobbiamo solo imparare a condividerlo e portarlo a tutti, ovunque.

Tuttavia, cara Ac, questo non è affatto semplice, almeno non per me. Non è facile mettere ordine ai miei pensieri su cosa significhi pace o cosa significhi essere qui, in una terra macchiata dal sangue degli innocenti, dove il dolore è onnipresente. Qui è evidente chi è l’oppresso e chi l’oppressore, chi subisce discriminazione e apartheid, chi viene considerato inferiore, come se la sua vita non fosse degna di essere vissuta.

Lo vedo ogni volta che attraverso un checkpoint tra soldati armati e file interminabili. Mentre i soldati sembrano ignorare i palestinesi in attesa, come se il loro tempo non avesse valore. Percorrere una manciata di chilometri può richiedere ore, e spesso raggiungere un ospedale o una scuola è solo una questione di fortuna. E io vivo tutto questo da privilegiato, con più diritti di chi è nato qui, semplicemente perché non sono palestinese.

Il muro che separa i territori palestinesi da quelli israeliani. Può essere attraversato solo per
mezzo di checkpoint ma non da tutti. Solo da chi ha la cittadinanza israeliana o un passaporto
straniero. I palestinesi con il permesso di attraversarlo (mai in auto, ma solo a piedi) sono
in numero sempre minore e per una durata di giorni spesso irrisoria

La discriminazione è evidente: io, straniero, posso visitare Gerusalemme, il lago di Tiberiade, Nazareth, o semplicemente arrivare all’aeroporto di Tel Aviv, mentre ci sono palestinesi che non vi hanno mai messo piede, confinati dietro un muro che non possono attraversare. È evidente la segregazione: ci sono ambulanze, autobus, strade, targhe, scuole e ospedali separati per israeliani e palestinesi. Da oltre settant’anni esistono palestinesi (tutt’oggi in aumento) che vivono in campi profughi sparsi a Gaza, Giordania, Libano e Cisgiordania, espulsi dalle loro case senza alcuna speranza di ritorno.

Alcuni rispondono a questa ingiustizia con le armi, altri con metodi non violenti, come i movimenti popolari. Ci sono persone che resistono attraverso l’arte, la cultura, il dialogo tra religioni e popoli. Alcuni usano i social media per mostrare al mondo cosa significhi vivere sotto occupazione militare. E non sono solo palestinesi: esistono anche israeliani antisionisti che si oppongono all’occupazione, chi rifiuta la leva militare e viene incarcerato per questo. Altri vivono accanto ai palestinesi in Cisgiordania, testimoniando le violenze dei coloni e dei soldati. Ci sono persone che, nonostante le difficoltà e le repressioni governative, inviano aiuti umanitari a Gaza.

Mi chiedo spesso cosa possa fare io in tutto questo. Come posso costruire la pace in una terra devastata da contraddizioni, dolore e ingiustizia? Una risposta sicuramente l’ho trovata nelle piccole creature della casa-famiglia dove vivo. Stare accanto ai più piccoli, agli ultimi tra gli ultimi, a chi è stato abbandonato solo perché ha una disabilità, in una società che non sa prendersi cura nemmeno di sé stessa, figuriamoci di loro. Un’altra risposta l’ho trovata nei volti che incontro e nelle storie che ascolto. Storie di resilienza, di desiderio di giustizia, di pace, di uguaglianza e diritti per tutti, senza esclusione alcuna.

Tutto questo è ciò che mi spinge a continuare ogni giorno: la convinzione che nonostante il mio piccolo possa essere inutile, sento che non avrò mai pace finché non ci sarà pace per tutti. E sento che non ci sarà pace senza giustizia, e non ci sarà giustizia se non sarà per tutti.

Elia Giovanni è lo pseudonimo di un socio dell’AC che, ormai da un paio d’anni, in forma sempre più stabile, vive in Terra Santa. Per motivi legati al suo permesso di soggiorno e alla sicurezza delle persone, organizzazioni e realtà di cui leggeremo nelle prossime corrispondenze, preferisce non rendere pubbliche le proprie generalità né condividere la propria foto (o immagini troppo specifiche di tutte le persone che possono essere a rischio).

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