Ius scholae. Una pagina di futuro

Il segno di una realtà nuova che sta già prendendo forma e domanda che Paese vogliamo essere

dal sito dell’Azione Cattolica Italiana

Nelle ultime settimane e mentre ci si avvia a un nuovo anno scolastico, le cronache politiche danno conto del dibattito sul cosiddetto Ius scholae, il riconoscimento della cittadinanza italiana a ragazzi e giovani stranieri al compimento di un ciclo di studi.

Una questione ad oggi sospesa nel limbo parlamentare, che più precisamente così si sostanzia, nel testo discusso alla Camera: il riconoscimento della cittadinanza italiana per i giovani con background migratorio nati in Italia o arrivati prima del compimento dei 12 anni che risiedano legalmente e che abbiano frequentato regolarmente almeno 5 anni di studio nel nostro Paese, in uno o più cicli scolastici. Inoltre, se i 5 anni considerati includono la frequenza della scuola primaria, allora viene richiesto anche il superamento del ciclo di studi con esito positivo come elemento fondamentale per il riconoscimento della cittadinanza.

In queste stesse settimane, si è detto tutto quello che si poteva dire a favore e contro. Si sono mobilitate associazioni, si sono pronunciati intellettuali, esponenti politici, persino personaggi del mondo dello spettacolo. Ma si sono anche moltiplicate le chiusure intransigenti, gli episodi di insofferenza. A dimostrazione che non è mai abbastanza l’impegno collettivo per togliere la maschera alle tantissime mistificazioni e paure che accompagnano puntualmente ogni dibattito che ha come soggetto i migranti. Prendendo esempio magari dai più giovani tra noi.

Non a caso, sono proprio loro, i nostri figli, i ragazzi, i giovani a insegnarci a vivere senza timori e senza pregiudizi la presenza in mezzo a noi di altri bambini e altri ragazzi provenienti dall’Africa, dal Sud America, dall’Asia. Sono loro i primi a domandarci perché questi loro coetanei devono rimanere diversi da loro, non possono essere e sentirsi italiani, europei, cittadini del Paese in cui abitano. Perché devono vivere nella precarietà, nell’incertezza del futuro, nell’impossibilità di sentire che le proprie radici affondano anche qui, nel terreno dove vivono. Domande semplici, a cui, per una volta, sembrerebbe esserci una risposta altrettanto immediata. Una risposta difficile, però, da far maturare dentro un’opinione pubblica scarsamente informata e, molto spesso, strumentalmente deformata.

Ancora una volta, insomma, c’è bisogno, innanzitutto, di fare cultura, di alimentare un pensiero critico, consapevole, informato. C’è bisogno di cambiare la narrazione predominante della realtà dell’immigrazione, aiutarci tutti insieme a guardare a essa come a un vero e proprio patrimonio del nostro tempo, una promessa di futuro, il segno di una realtà nuova che sta già prendendo forma.
I nostri quartieri, i nostri paesi, le nostre parrocchie sono già piene di migliaia di “non cittadini”, di figli di questa o di altre terre che desiderano crescere, formarsi, fare amicizia, innamorarsi e trovare il proprio posto nel mondo qui, in Italia, o forse domani in un altro Paese, esattamente come tutti i figli di genitori italiani.
Una realtà davanti a cui non avrebbe senso chiudere gli occhi sperando che passi, ma che occorre invece saper inserire dentro la trama di un tessuto di legami solidali, incanalandola dentro la cornice di un consapevole senso delle istituzioni e di una cultura diffusa della legalità.

Non si tratta di buonismo, né di ingenuità. Si tratta, al contrario, di coltivare il senso della storia, maturando la consapevolezza della necessità di stare dentro le grandi trasformazioni che da sempre ne caratterizzano il percorso senza limitarsi a celebrarle acriticamente, ma senza nemmeno accontentarsi di rifiutarle e imprecare contro di esse, illudendosi così di esorcizzarle.

Il modo con cui affrontiamo il nodo del riconoscimento della cittadinanza a coloro che desiderano far parte di una comunità civile tenuta insieme da regole condivise e principi democratici ci dice, allora, qualcosa in più rispetto ai soli contorni della questione in gioco. Ci dice che tipo di società vogliamo essere. Una società che vive con lo sguardo rivolto a ciò che è stato, chiusa in se stessa, asserragliata a difesa dei propri privilegi dietro le mura rassicuranti dei propri diritti, e forse destinata proprio per questo a essere travolta dagli eventi, oppure una società che guarda in faccia la realtà, senza negare i problemi e le difficoltà che essa comporta, senza far passare per semplice ciò che invece è complicato, ma proprio per questo disposta ad assumere le sfide che ha davanti e farne un’opportunità per dare forma insieme a un futuro comune.
In breve, essere una comunità capace di trovare le strade per costruire senza esclusioni una convivenza più giusta, più sicura, più pacifica.

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