Presidente, i numeri dell’Associazione non sembrano incoraggianti. Lei parla di «una stagione pervasa da criticità e fatiche in parte determinate e in parte “svelate” dalla pandemia del Covid-19». Son intuibili le criticità “determinate” dalla pandemia. Quali sono quelle “svelate”?
Ci siamo resi conto, a motivo della situazione in cui ha costretto la pandemia, che la vita associativa era entrata in crisi. Parlo del primato delle relazioni, perché il valore del gruppo che non è adunanza, che sa di convocazione, ma la dimensione orizzontale della cura delle relazioni. Il nostro impegno è stato allora rifocalizzare la vita associativa sulle relazioni e questo ci ha fatto riscoprire anche la gratuità del servizio, che negli ultimi anni ha risentito del fatto che c’è più calcolo nell’impegno delle persone, mentre la vita associativa dovrebbe far crescere proprio nella gratuità, perché il bello della vita associativa non è il funzionale, ma la cura delle persone. La vita associativa non deve aggiungersi deve essere qualcosa che fa splendere la vita delle persone.
C’è stato un tempo in cui l’Ac “bucava” le pagine dei giornali. Erano i tempi di Vittorio Bachelet e poi di Alberto Monticone. L’Ac era presente nel dibattito pubblico con un punto di vista precipuo che suscitava spesso interessanti confronti. Poi i fermenti dell’Ac sono stati ritenuti più un problema che una risorsa e la Chiesa istituzionale ha puntato sui movimenti, liberistici e omogenei. Oggi pensate che il modello associativo, più formativo e dialogico, possa ancora essere vincente dentro il laicato cattolico?
Spero e penso di sì. Anche se il modello del liderismo non era solo ecclesiale, ma sociale. E qualche coda c’è ancora. Penso però che nel tempo attuale si avverta la necessità della ricucitura dei legami sociali. Allora il compito dell’Associazione è anche questo, la tessitura del capitale sociale, non solo nella vita della Chiesa ma nella società in genere. Un orientamento verso cui tra l’altro sospinge papa Francesco quando parla di Chiesa in uscita. Perché la dimensione del popolo che non è massa indistinta da guidare, ma società civile organizzata – è la mistica popolare di cui parla il Papa – che partecipa, che dialoga con le istituzioni. Questo dunque è il tempo delle associazioni, di rigenerazione dal basso della democrazia, dell’insistenza sul ricambio è generativo, del passare il testimone come peraltro l’AC fa cambiando le cariche ogni tre anni. L’altro elemento di questo tempo è quello che noi chiamiamo la scelta delle alleanze, cioè non da soli, ma in colloquio con altri come responsabilità di far crescere un linguaggio partecipativo, democratico, lavorando insieme.
La larga maggioranza dei soci dell’Associazione è femminile: le donne sono il 63%, dato comprensibile se si pensa che nelle parrocchie la presenza femminile è sempre più alta di quella maschile. Come mai l’AC non è intervenuta sull’opportunità di un servizio almeno diaconale delle donne?
La mia esperienza associativa è di grande protagonismo femminile, anche come incarichi dirigenziali e alla presidenza dell’associazione. È tempo di avere un’altra presidente donna, una seconda presidente donna, la prima fu Paola Bignardi (1998- 2005). Sul tema più teologico dell’ordinazione diaconale e/o sacerdotale femminile, noi ci siamo confrontati con molte teologhe ma non abbiamo mai tematizzato la questione. Penso di poter dire che l’associazione avrebbe piacere a discuterne in maniera libera.
E, dunque, un dibattito su questo tema, qualora venisse presentato da parte di qualcuna o qualcuno all’interno dell’Associazione, non verrebbe soffocato?
Penso che il cammino sinodale lo porrà e là bisognerà vedere di affrontarlo con libertà e anche con grande creatività. Ne parlava anche qualche vescovo in assemblea, quindi non è una questione taciuta. Ora si può discutere di più. Le teologhe donne stanno dando un grande contributo, ci hanno aiutato moltissimo anche negli approfondimenti sul cammino sinodale.
Per il Sinodo del 2023 avete consegnato una riflessione come associazione o avete dato il vostro contributo al dibattito nelle varie diocesi?
Ci siamo attivati per animare la fase diocesana, ci sembrava più importante questa fase di ascolto e vorrei dire che una buona parte dei referenti diocesani dei sinodi sono persone dell’AC. È una cosa che dimostra il coinvolgimento reale. Ora abbiamo deciso di dedicare il prossimo Consiglio nazionale ad ascoltare la verifica emersa dall’assemblea episcopale con l’idea di dare un contributo di riflessione e di animazione. Non abbiamo ancora messo a tema l’idea di fare un documento nostro. Magari il Consiglio nazionale deciderà che è maturo il tempo di elaborare un contributo.
Ci sono molte diocesi nel mondo che hanno concluso il lavoro sinodale di loro spettanza. Voi che avete partecipato alla prima fase nelle diocesi, avete un po’ il polso della situazione dei loro contributi, a partire dalla diocesi di Roma?
A parte questo cammino finalizzato al Sinodo 2023, c’è tutto il cammino della Chiesa italiana da far avanzare: bisognerà verificare se le diocesi cominciano ad avere uno stile sinodale, a capire che il sinodo non è una cosa da fare, ma una conversione. È importante avviare gruppi di ascolto, di coinvolgimento, andando oltre lo spazio tradizionale della parrocchia.
Qual è la posizione dell’associazione sulle persone LGBT?
Il problema è l’accoglienza delle persone. Chi fa una scelta di fede, chi sente di volere partecipare alla vita della comunità deve trovare nell’associazione una compagna di strada. C’è poi la questione del Ddl Zan che sta dividendo il Paese. Non è solo la questione della condanna dell’omotransfobia, dell’aggravamento delle norme del Codice penale. Il passaggio su cui dobbiamo continuare a confrontarci è quello in cui la legge lega il tema della condanna alla promozione nelle scuole, perché da un lato dobbiamo educare i nostri ragazzi all’accoglienza e alla non discriminazione, dall’altra c’è la promozione di uno stile di vita. Noi vogliamo continuare a fare discernimento su questo tema anche attraverso l’ascolto delle esperienze delle persone vicine all’AC.
Insieme a 40 Associazioni cattoliche, l’Ac ha sottoscritto un documento in cui si chiede al Governo italiano di aderire al Trattato per la messa al bando delle armi nucleari.
Sul tema della pace bisogna essere evangelici. Il no alla guerra deve essere deciso. Mi rendo conto che il governo italiano è in un sistema di alleanze cui bisogna essere leali. Nell’orizzonte c’è la ricerca della pace, poi fanno la differenza tempi e modi delle scelte. Ma bisogna ragionare sul bando delle armi nucleari perché la preoccupazione c’è, e se c’è è perché continuiamo ad avere le armi nucleari, e allora bisogna continuare a insistere su campagne come quella che abbiamo sostenuto, perché il problema è che continuiamo ad armarci. C’è un’altra iniziativa che voglio ricordare: quella dei corpi civili di pace. Bisogna dare più spazio alla società civile, al dialogo tra i popoli.
L’Associazione condivide quello che finora è stato il modus operandi della Chiesa sugli abusi di preti verso i minori?
Penso che il cammino della Chiesa italiana, seppure travagliato, con le sue inerzie, con le sue fatiche, vada nella direzione che il Papa, contro gli abusi, ha descritto in maniera lucidissima. Il cammino è inesorabile. Noi siamo per la maggiore trasparenza possibile e riteniamo che il lavoro educativo che svolgiamo sia importante anche dal punto di vista culturale. Sul piano educativo, perché non abbiano a ripetersi abusi sessuali e/o di coscienza, l’AC ha partecipato al progetto Safe, un programma biennale di ricerca dell’Unione Europea, cui hanno partecipato 4 partners: l’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, il Centro Sportivo Italiano, il C.I.R.Vi.S. – SDE (Università di Bologna), la Presidenza nazionale AC. Il successo dell’iniziativa è dato innanzitutto da un numero: sono state formate 1.200 persone.
(continua)