Qual è il momento che ti ha colpito di più della beatificazione di Armida Barelli?
È stato un weekend emozionante. Mi è rimasta in mente soprattutto la veglia in Sant’Ambrogio, ma solo perché era un contesto più intimo rispetto alla grande folla del Duomo, e saltava subito all’occhio che lì si stavano incontrando di nuovo tutte le realtà che Armida Barelli ha contribuito a fondare nella sua vita. Azione cattolica, Università Cattolica, Istituto secolare delle missionarie della regalità di Cristo… Ciascuna di queste realtà ormai ha acquisito una storia propria, indipendente dalle altre, e procede con un proprio percorso, eppure a fine aprile le nostre diverse strade si sono re-incrociate a Milano, si sono riconosciute dentro lo stesso progetto, in uno stesso volto, che è quello di Armida Barelli e prima ancora del Signore Gesù. Anche in Duomo, il sabato mattina, eravamo tutti lì. E anche in quel caso, è stato l’alternarsi delle voci all’ambone nel momento della preghiera universale che mi ha commosso di più. Si sentiva la molteplicità delle esperienze che Barelli ha consegnato alla Chiesa, che oggi vivono sulle proprie gambe, con un proprio carisma. Insomma, a Milano, il 30 di aprile, c’era una Chiesa che è un poliedro, come dice papa Francesco.
C’è un momento che ti è particolarmente caro, della vita di Armida Barelli? Un motivo per cui la venererai come beata?
Il momento che mi provoca di più della sua vita è la conversazione del 1918 con papa Benedetto XV. Quando il papa la chiama a fondare la Gioventù femminile, lei obietta che non è il caso, che non è la persona adatta, che è troppo vecchia. Alla fine, per svicolarsi dalla proposta, confida a Benedetto XV il suo desiderio più intimo, ovvero quello di partire missionaria. Glielo confessa come la sua “vocazione”, gli dice proprio «mi sento chiamata ad altro». Di fronte a quello che sembra un piano proveniente da Chi sta ben più in alto del papa, Benedetto XV risponde: «della vostra vocazione rispondiamo noi a Dio». Lo so, non è una frase di lei, è di Benedetto XV, quindi uno dice: «Beh, ma non è un motivo per venerare Armida Barelli».
E invece?
E invece secondo me è proprio il motivo principale. Perché troppe volte ci illudiamo che la vocazione sia una questione personale, da meditare e perseguire autonomamente, e pensiamo ai santi e alle sante come punti solitari, che danno sempre e non ricevono mai. Invece una vocazione non è una cosa intimistica: parte da un’esigenza concreta, passa dal riconoscimento degli altri, e noi possiamo aderire solo fidandoci che quegli altri si faranno carico di noi, che non siamo soli o sole. È la Chiesa che risponde della vocazione di ciascuno e ciascuna di noi. Questo è molto bello, ma è anche una grande responsabilità per la Chiesa tutta. Insomma: Armida Barelli è stata quella che è stata perché qualcuno si è preso cura che lei potesse esserlo, l’ha messa nelle condizioni di esserlo. Quindi mi piace accorgermi che quando venero lei, venero in lei tutta la Chiesa. E nel frattempo mi ricordo che non rispondo solo della mia vocazione.
Oggi quello che ha fatto Armida Barelli è ancora replicabile?
Forse lo è, ma non è detto sia quello di cui abbiamo bisogno cento anni dopo. L’importante non è replicare quello che lei ha fatto, ma andare nella stessa direzione in cui lei è andata, che poi è la direzione dello Spirito. A me sembra che la sua direzione sia stata: promuovere degli spazi dove le persone, nel suo caso le donne, potessero incontrarsi e crescere insieme, nella vita e dunque nella fede. Ai suoi tempi, creare spazi significava fondare istituzioni, creare simboli identitari; oggi probabilmente non è più il tempo, almeno non nelle nostre Chiese italiane. Ma creare spazi è ancora necessario. Per i cristiani e le cristiane contemporanei, ovvero per noi, forse significa creare occasioni e luoghi di transito, in cui chiunque passi volentieri, con la sicurezza di essere accolto/a e di poter trovare strumenti utili per sé e per le proprie comunità. D’altronde, anche Barelli è stata una maestra di “transiti”, mai ferma in un posto soltanto, sempre in fermento. Ha fondato diverse istituzioni e le ha attraversate tutte. Questo possiamo impararlo direttamente dalla sua storia: non essere statici, sconfinare.