È sufficiente essere connessi per sentirsi “appartenenti”?
Cosa significa “appartenenza”? Significa prima di tutto condividere l’umanità, condividere gli spazi e i tempi con gli altri, condividere la Fede e l’ideale associativo. Il tempo che stiamo vivendo ha molto a che fare col tema della appartenenza: tutti noi, come comunità sociale ed ecclesiale, stiamo vivendo un tempo di prova, che ci chiede pazienza e corresponsabilità; è un tempo in cui siamo invitati a riflettere su ciò che è essenziale, sul significato di ciò che stiamo vivendo ed è anche un tempo in cui ci siamo scoperti interdipendenti, perché condividiamo tutti le stesse ansie, le stesse paure. Se da una parte va sempre più emergendo il rischio di vivere nella solitudine, nella chiusura in se stessi, nell’indifferenza, dall’altra però questo tempo ci ha fatto conoscere quanto sia vitale per noi sentirci con gli altri e anche come la relazione abbia bisogno di un incontro “tridimensionale” con l’altro, cioè mediato non solo dalla voce e dallo sguardo, ma dalla comunicazione globale del nostro corpo. Questo tempo ci sta dicendo che connetterci è facile, ma sempre di più ci stiamo accorgendo che potrebbe insorgere l’illusione che stare con gli altri, partecipare, appartenere, sia semplicemente “connettersi”. Papa Francesco nella “Fratres omnes” (42, 43), parlando della illusione della comunicazione, scrive “la connessione digitale non basta per gettare ponti, non è in grado di unire l’umanità”: cioè la connessione è facile ma non produce necessariamente relazioni, perché entrare in relazione vuol dire mettere in gioco se stessi: è una questione di scelta, una questione di sguardi. Se è vero che noi non riusciamo a vivere senza appartenere a qualcosa, è altrettanto vero che l’appartenenza può essere di diversi tipi, quindi richiede una scelta. Noi potremmo ad esempio appartenere e sentirci al sicuro in una comunità chiusa, che considera gli altri come nemici. Dal punto di vista dell’antropologia cristiana questo è un modo di appartenere che alla fine disumanizza le persone, perché il legame con l’altro deve essere letto nella prospettiva del dono, che è sempre un invito ad uscire da sé. Ancora una volta papa Francesco ci illumina quando nella Fratres Omnes (87) scrive “Un essere umano è fatto in modo tale che non si realizza, non si sviluppa e non potrà trovare la propria pienezza se non attraverso un dono sincero di sé. E ugualmente non giunge a riconoscere a fondo la propria verità se non nell’incontro con gli altri. Non comunico effettivamente con me stesso se non nella misura in cui comunico con l’altro”. Le parole del Papa ci restituiscono questa visione fondamentale dell’antropologia cristiana, cioè che i cristiani sono chiamati ad abitare nel mondo, a sentirsi appartenenti ad un’unica umanità, nel riconoscimento che l’altro è dono per farci uscire da noi stessi e per farci diventare autenticamente persone. Vogliamo cioè vivere un’appartenenza segnata dalla logica del camminare insieme, una logica di corresponsabilità: laici e presbiteri, corresponsabili reciprocamente innanzi tutto nella fede.
Abbiamo bisogno come Azione Cattolica di ritornare ad interrogarci su come poter essere associazione che propone un’appartenenza attraente, perché l’appartenenza ad un gruppo, e alla comunità, può con il tempo diventare stancante, può perdere di vitalità. Allora per continuare a costruire un’appartenenza attraente abbiamo bisogno di coltivare la forza e la bellezza delle relazioni, di progettare generosamente, senza paura di perdersi, come ci ricorda papa Francesco quando ci esorta ad “Osare con libertà”.