di Francesco Frigerio
materiale Campo Adulti 2015
L’esistenza umana si basa su tre relazioni fondamentali strettamente connesse: la relazione con Dio, quella con il prossimo e quella con la terra (LS 66).
La questione della disponibilità di terre rare per la tecnologia è un esempio di come si configura questa relazione che chiede anche a noi un cambio di stile di vita ma anche una assunzione di responsabilità.
Possiamo evitare di cambiare smartphone ogni volta che esce il modello nuovo e persino cercare lo smartphone equo-solidale, ma anche incoraggiare l’utilizzo di materie prime riciclate.
Certo il processo di riciclaggio impatta sull’ambiente e deve essere gestito correttamente, ma chi trae vantaggio da una tecnologia dovrebbe anche pagarne il prezzo.
Non possiamo infatti ignorare i danni causati dall’esportazione verso i Paesi in via di sviluppo di rifiuti solidi e liquidi tossici e dall’attività inquinante di imprese che fanno nei Paesi meno sviluppati ciò che non possono fare nei Paesi che apportano loro capitale: « Constatiamo che spesso le imprese che operano così sono multinazionali, che fanno qui quello che non è loro permesso nei Paesi sviluppati o del cosiddetto primo mondo (LS 51).
In Italia in particolare ecologia significa oggi opporsi a qualunque tipo di impianto del ciclo dei rifiuti pericolosi: dall’amianto ai metalli, la soluzione invocata è quasi sempre l’invio dei rifiuti all’estero, salvo poi protestare per l’aumento delle tariffe.
Lo stesso principio di responsabilità, deve essere applicato alla questione dei cambiamenti climatici.
Nel 2014 per la prima volta si è osservato un disaccoppiamento della crescita mondiale con l’incremento delle emissioni di CO2, ovvero ad una (leggera) crescita dell’economia, non corrisponde un incremento delle emissioni. Questo è spiegabile con il recupero di efficienza energetica di alcuni paesi, come la Cina, che hanno un grosso peso in questo problema.
Nella Tabella I si vede come effetti più significativi sulle emissioni globali si ottengono migliorando l’efficienza di alcuni paesi rispetto ad altri
Tabella I: dati sulle emissioni tratti dalla banca mondiale, (a parte l’ultima colonna)
Dati banca mondiale, 2010 (http://data.worldbank.org/) | ||||
Emissione CO2 totali, milioni di tonnellate | PIL, miliardi di dollari | Consumo pro/capite di energia elettrica, kWh | kg di CO2 per dollaro di PIL | |
India | 2009 | 1708 | 641 | 1,176 |
Brasile | 420 | 2143 | 2381 | 0,196 |
Cina | 8287 | 5931 | 2944 | 1,397 |
Italia | 406 | 2127 | 5494 | 0,191 |
Germania | 745 | 3412 | 7162 | 0,218 |
Francia | 361 | 2647 | 7736 | 0,136 |
Giappone | 1170 | 5495 | 8337 | 0,213 |
USA | 5433 | 14964 | 13395 | 0,363 |
Alcune delle strategie per la bassa emissione di gas inquinanti puntano alla internazionalizzazione dei costi ambientali, con il pericolo di imporre ai Paesi con minori risorse pesanti impegni sulle riduzioni di emissioni, simili a quelli dei Paesi più industrializzati. L’imposizione di queste misure penalizza i Paesi più bisognosi di sviluppo. […]« i Paesi che hanno tratto beneficio da un alto livello di industrializzazione, a costo di un’enorme emissione di gas serra, hanno maggiore responsabilità di contribuire alla soluzione dei problemi che hanno causato » (LS 170).
La tabella evidenzia come sia forte la tentazione di far pagare la riduzione dei gas serra a paesi che avrebbero ancora bisogno di accrescere i loro consumi.
Chiaramente possiamo e dobbiamo imparare dai nostri errori e possiamo attenderci che Cina e India, tanto per fare degli esempi, implementino le nuove tecnologie partendo dai sistemi più efficienti, magari evitando di smerciare a loro i nostri fondi di magazzino non più “eco”, ma bisogna anche capire che non possiamo permetterci di aumentare indefinitamente i consumi.
Il problema è che una politica focalizzata sui risultati immediati, sostenuta anche da popolazioni consumiste, rende necessario produrre crescita a breve termine. Rispondendo a interessi elettorali, i governi non si azzardano facilmente a irritare la popolazione con misure che possano intaccare il livello di consumo o mettere a rischio investimenti esteri.(LS 178).
L’ultima colonna della tabella, (di cui la Banca Mondiale non ha colpa) mostra che alcuni paesi hanno un PIL che costa meno di altri in termini di emissioni di CO2.
A cominciare dalla Francia, si dimostra che sono questi i paesi che dipendono in misura maggiore dall’energia nucleare.
Significativo l’esempio del Giappone che dopo l’incidente di Fukushima aveva spento i suoi reattori e ha discusso una possibile uscita dal nucleare.
In effetti l’impianto di Fukushima assorbe oggi un’enorme quantità di risorse energetiche ed economiche per il solo mantenimento in sicurezza e sono ancora in fase di studio le tecnologie necessarie alla risoluzione delle conseguenze dell’incidente.
Nondimeno, a giugno 2015 il Giappone risultava avere ancora 43 reattori operativi e nel mese di luglio ha annunciato la ripresa della produzione di energia nucleare.
Possiamo recriminare sul fatto che i giapponesi abbiano basato il loro sviluppo sul nucleare in un paese esposto ai terremoti e che ha inventato il termine Tsunami, ma dobbiamo anche domandarci quali conseguenze ci sarebbero state se l’incidente fosse accaduto in una centrale indiana.
Ugualmente, possiamo auspicare una riduzione dei consumi dei giapponesi a vantaggio degli indiani, ma forse il primo cambiamento deve partire da noi, dobbiamo essere disposti a restituire qualcosa: è arrivata l’ora di accettare una certa decrescita in alcune parti del mondo procurando risorse perché si possa crescere in modo sano in altre parti. (LS 193).
Forse, oltre alla decrescita, che è felice solo per chi è già cresciuto, potremmo cominciare ad imparare a prenderci qualche responsabilità.